

Blog Risorse Umane | News, guide e consigli sul mondo HR
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Ecco perchè devi sapere la verità sul Recruiting
17 Giugno 2021
Nel mondo del lavoro, le regole del gioco sono cambiate e tanti ancora non lo sanno, perdendo in partenza qualsiasi selezione. C’è anche chi invece ha capito che deve allenarsi e prepararsi per avere un vantaggio competitivo nella ricerca di un nuovo lavoro oppure nella più difficile sfida della ricollocazione professionale. Come in tutte le sfide della vita, serve acquisire un metodo, grazie al quale individuare la tua “nicchia”, il posto di lavoro ideale per te e per le tue attitudini. Per fare questo serve anche impegno, grinta e tenacia. Parliamoci chiaro: al giorno d’oggi nessuno può garantirti che, con quel corso o con quel curriculum, al 100% tu troverai il lavoro dei tuoi sogni, chi afferma questo ti sta palesemente illudendo e sta solo cercando di venderti l’ennesimo corso registrato! E se invece tu avessi al tuo fianco un vero e proprio allenatore, un coach che ti prepara, ti allena, ti fa scoprire il tuo potenziale, ti rivela il dietro-le-quinte del recruiting, ti spiega come le dinamiche del digitalmarketing influenzano la scelta del candidato ideale, ti aiuta a definire il messaggio che vuoi comunicare al tuo interlocutore, allora le probabilità di successo si alzano di parecchio, vero? Ecco perché l’impreparazione e la superficialità, nella selezione del personale, oggi ti fanno perdere in partenza: se non sei pienamente consapevole di te stesso, di quale strada vuoi percorrere e soprattutto se non sei capace di promuoverti efficacemente, se non sei tu il primo che crede in te, come potrai mai pretendere che sia un recruiter (che non ti conosce) a puntare su di te? Ma che cosa distingue il metodo Go! Step Up! nella consulenza di carriera da tutti gli altri? Dubbio assolutamente lecito, ci sta, siamo pieni di consulenti che promettono mari e monti. La realtà è che se non tocchi con mano, in prima persona, i risultati del metodo Go! Step Up!, non potrai mai sapere l’ upgrade che potrai andare a fare sulla tua persona e nella ricerca del tuo lavoro. Ti lascio leggere allora questa mail, che ho appena ricevuto stamattina, per capire come posso aiutarti… d’altronde solo tu puoi decidere davvero le sorti della tua carriera e sta a te decidere quando cominciare a rendere davvero efficaci le tue selezioni ed avere quel lavoro che ti motiva e ti soddisfa. Sei vuoi saperne di più, scrivimi info@gostepup.it oppure visita questa pagina https://www.gostepup.it/consulenza-di-carriera-il-tuo-personal-trainer-per-il-lavoro/
La capacità di semplificare riflette una mente ordinata (e consolida la tua immagine)
15 Marzo 2021
L’ordine si ottiene dal caos. Ammetto, il principio è liberamente tratto da un motto massonico: “Ordo ab chao”, ma a me non interessa certo la componente settaria del concetto, quanto piuttosto il significato che rivela: per creare ordine bisogna partire dal caos. Creare ordine è un principio proprio delle entità divine, ma una fiamma di quella scintilla celeste accende anche le menti degli esseri finiti come noi. Beh, non tutti. Perché avere la capacità di mettere ordine, di semplificare il complesso, è qualcosa che richiede abilità non comuni e, ancor più, una padronanza dei mezzi e delle conoscenze non accessibile a tutti. Il nostro diritto a non comprendere Questo vale in qualunque contesto, in ogni ambito e a tutti i livelli di conversazione. Se però il contesto a cui ci riferiamo è quello lavorativo, aziendale, commerciale, la questione si fa ancora più delicata. Ad esempio, può capitare – e capita – di interfacciarsi con un professionista di un settore estraneo al nostro, un tecnico chiamato a trasmetterci nozioni di cui noi siamo sprovvisti. E può capitare, in una situazione così descritta, di comprendere poco o nulla di quanto ci viene esposto. Non so voi, per quanto mi riguarda, la mia reazione istintiva è quella di colpevolizzarmi, di imputare il gap di comprensione a mie lacune personali. Non penso mai che il mio referente si stia esprimendo in un modo troppo ostico, ma che sia io quella incapace di stargli dietro. E sapete una cosa: sbaglio a pensarla in questo modo. Semplificare non è una cosa semplice Non importa quanto un tema sia elaborato, non conta il livello di difficoltà di un concetto, il professionista è colui che deve trovare i mezzi per rendere semplici tematiche complesse. Se non ne è in grado, c’è un problema che, nella migliore delle ipotesi, è di tipo comunicativo; o peggio, potrebbe essere dovuto al fatto che è lo stesso professionista a non avere chiari determinati pensieri. E nella peggiore delle ipotesi in assoluto, ciò potrebbe essere persino indicativo di scarsa trasparenza. Ovvio, no? Se sono convinto delle mie capacità e della qualità dei miei servizi/prodotti, io per primo sarò interessato a fare in modo che anche il mio cliente – o potenziale tale – comprenda ciò che gli sto dicendo. E non è sempre facile riuscirci. Steve Jobs dixit… “Questo è stato uno dei miei mantra: concentrazione e semplicità. Semplice può essere più difficile del complesso: devi lavorare sodo per rendere il tuo pensiero pulito per renderlo semplice. Ma alla fine ne vale la pena, perché una volta arrivato lì, puoi spostare le montagne.” Steve Jobs Questa citazione l’ho ripresa da una newsletter di Riccardo Scandellari, che ha tra l’altro ispirato questo articolo. In queste poche righe, Jobs fotografa un pensiero che mi accompagna da sempre e lo definisce in maniera straordinariamente chiara. Nei paragrafi precedenti mi sono soffermata sull’aspetto comunicativo della questione, ma non si riduce tutto lì: la capacità di comunicare in maniera semplice è una diretta conseguenza e una concretizzazione di ciò sta nella nostra testa. Semplificare non significa, banalmente, utilizzare termini di facile comprensione; la questione è, tanto per cambiare, più complessa di così. Mettere ordine nel caos vuol dire, prima di tutto, schiarire la mente. Si tratta di un processo allo stesso tempo induttivo e deduttivo: possedere la visione d’insieme e saper disciplinare i dettagli. Perché, spesso, è proprio la visione d’insieme che manca un addetto ai lavori. Qualunque lavoro. Nel mio caso, ad esempio… Io mi occupo di Risorse Umane. Il mio non è esattamente un campo con cui i miei clienti hanno dimestichezza. Di solito, i nostri clienti vengono da noi e sanno solo che hanno bisogno di avviare una selezione di lavoro, ma (giustamente!) non hanno alcuna idea di come gestire i diversi step. A questo punto io ho due diverse strade a disposizione: Lasciarmi prendere dal desiderio di esibire le mie vere o millantate competenze, magari utilizzando termini gergali, facendo promesse altisonanti che riguardano l’utilizzo di questo o quello strumento, elencando una serie di attività che sono in grado di erogare. Risultato: il cliente non ci capirà nulla. Oppure… Eliminare il superfluo, definire una linea guida facilmente comprensibile. Mettere ordine nel caos. Nel suo caos. Risultato: il cliente sarà felice. Sarebbe persino scontato spiegarvi come il secondo approccio sia apprezzato dal referente. Egli si sente tranquillizzato, rasserenato, a proprio agio. E sapete perché? Perché a quel punto avrà capito esattamente quello che verrà fatto, come verrà fatto e perché verrà fatto: basi solidissime per una collaborazione proficua e soddisfacente per entrambe le parti. Less is more!
Vi parlo dell’associazione OneParent: sostegno per famiglie monogenitoriali
3 Marzo 2021
Avete idee di quello che significhi essere un genitore separato? Forse, se non lo avete vissuto sulla vostra pelle, potete solo provare a immaginarlo. Quasi certamente riuscite a visualizzare l’affanno del tempo ridotto al lumicino, l’ansia di un’agenda fittissima che, tra lavoro e genitorialità, aggiunge più impegni di quanti sia in grado di cancellarne. E forse potete anche riuscire a empatizzare con l’idea della solitudine che ti attanaglia in tarda serata, quando il peso delle responsabilità e degli impegni si mostra in tutta la sua gravosità e senza alcun sostegno su cui fare leva. Forse riuscite a immaginarlo, ma, credetemi, ci sono sensazioni che possono essere realmente comprese solo se le hai vissute sulla tua pelle. Genitori separati: vi racconto la mia esperienza Sono una donna lavoratrice. E sono una mamma separata di due splendide gemelle. Anzi, sono prima di tutto una mamma. E sono anche una donna che lavora. Sono due status symbol, due modi di configurarmi nel mondo di cui sono sempre stata immensamente fiera. Ma se andiamo oltre ciò che sembra, è facile scrutare ciò che, apparentemente, resta nell’ombra. Per quanto mi riguarda, mi viene fin troppo semplice ricordare i primi tempi dopo la rottura con mio marito, quelli in cui ho iniziato a realizzare di essere sola. Certo, non fisicamente, perché le mie piccole, i miei gioielli, mi lasciano ben poco margine per soffrire la solitudine. Ciò di cui vi sto parlando, però, è un tipo di solitudine ben più profondo. Vi parlo di quella solitudine propria di chi sa di avere enormi responsabilità e nessuna mano protesa verso di sé. La solitudine di chi vorrebbe lasciarsi andare, anche solo per qualche ora, riprendere fiato, ma sa di non poterselo permettere. Cosa fai in questi casi? Come ne esci? Ovvio: chiedendo aiuto. Associazione OneParent: quella luce nelle tenebre È stato questa la circostanza che mi ha spinto a cercare un supporto, un modo per scrollarmi di dosso quel senso di abbandono, qualcosa che fosse in grado di sorreggermi, almeno un po’. E così, quasi inevitabilmente, mi sono imbattuta in una community OneParent, di cui mai avevo sentito parlare prima. Dal 2012, come associazione di promozione sociale, supporta iniziative a sostegno della mono-genitorialità. OneParent è nata nel 2012 con l’intento di promuovere iniziative a sostegno della mono-genitorialità. Semplice, no? No. Per me – e per chi ha vissuto la mia stessa situazione – anche solo realizzare che la propria condizione è vissuta anche da altri, comprendere che esistono persone accomunate dal tuo stesso destino, suona come una rivelazione straordinaria. Basterebbe questa assunzione di consapevolezza per portare gratitudine a OneParent. Ma l’associazione è anche molto di più. Si tratta di una realtà che muove da un intento solidale, ma che è in grado di dare risposte concrete a problemi concreti. Perché va bene la comprensione, grazie al cielo esiste chi sa offrire supporto morale, ma neanche questo basta. Associazione OneParent: affrontare la mono-genitorialità L’associazione OneParent è una rete di genitori che non hanno accanto il proprio partner, a causa di una separazione o di un lutto o di una scelta coraggiosa. Il gruppo si propone come un centro di riferimento utile al confronto e alla promozione di ogni sorta di iniziativa possa offrire supporto a coloro che vivono il ruolo di madre/padre senza l’aiuto dell’altro genitore. Da una parte, OneParent è un’associazione capace di sostenere emotivamente e psicologicamente coloro che, altrimenti, non avrebbero altri referenti; dall’altra, il gruppo fornisce sostegno concreto per affrontare le piccole e grandi questioni che lo status di genitore solo comporta. OneParent e il re-ingresso nel mondo del lavoro Un genitore che cresce da solo i propri bambini ha ben poco tempo a disposizione ed energie da centellinare, per quanto possibile. Bisogna essere in grado di assicurare ai propri figli tutto ciò di cui hanno bisogno. E indovinate? Per farlo è necessario lavorare. E tanto. Allo stesso tempo, però, un bambino ha bisogno di attenzioni, di affetto, di educazione. Di presenza. E indovinate ancora? Se sei a lavoro non puoi essere con i figli. E se sei con i figli non puoi essere a lavoro. E allora che si fa? Inizialmente, quasi in modo istintivo, la genitorialità vince sul lavoro: si resta a casa, ci si dedica a tempo pieno al mestiere più bello e faticoso del mondo. Ma questa non è una scelta che si può protrarre all’infinito perché, come vi ho già detto, i bambini hanno bisogno di amore, ma anche di risorse economiche. E allora occorre riproporsi nel mondo del lavoro. Qui ecco le nuove difficoltà. E non sono poche: Rientrare nel mondo del lavoro dopo un periodo di inattività è complicato, specie se si è un genitore. La mono-genitorialità è spesso vista con sospetto dai datori di lavoro: un genitore solo potrebbe richiedere permessi speciali per stare accanto ai figli, in caso di malattie, imprevisti, impegni di vario genere. Conciliare le esigenze di genitore con quelle di lavoratore-trice può essere maledettamente complicato, specie se non si hanno nonni nelle vicinanze su cui ‘scaricare’ parte delle difficoltà E potrei continuare l’elenco, ma fermiamoci qui. L’associazione OneParent ne è perfettamente consapevole e offre servizi di assistenza pratici che aiutano il genitore a rientrare nel mondo del lavoro e a farlo in modo efficace. Ecco come la Presidente Paola Amore racconta la sua associazione: Siamo un gruppo di genitori, che dopo aver superato uno “tsunami” nella propria vita, vogliamo aiutare altri papà e mamme in difficoltà. Li supportiamo e sosteniamo per affrontare la quotidianità e il futuro con un approccio diverso. Ognuno aiuta in base alle proprie competenze e disponibilità e non ci mancano professionisti per i progetti più impegnativi o complessi. La mia partnership con OneParent Un po’ per gratitudine e tanto per passione, ho deciso di avviare una collaborazione con OneParent. Mi sono detta: “Che diamine! So perfettamente quello che fanno, apprezzo da morire il loro operato e i miei servizi potrebbero rivelarsi utilissimi per madri e padri single che hanno dovuto affrontare quello che ho già affrontato io! E poi, siamo
IQM Selezione e la squadra che funziona nonostante la pandemia
2 Marzo 2021
E’ con grandissimo orgoglio che diffondo la notizia che oggi il nostro CEO, Alberto Baggini, ci ha comunicato: siamo stati nuovamente premiati per il nostro modo di lavorare. Il Financial Times, ci ha riconfermato tra le 1000 aziende europee che sono maggiormente cresciute nell’ultimo anno … e tutti sappiamo che anno è stato quello che da qualche mese ci siamo lasciati alle spalle. La prestigiosa testata economico politica made in UK, nonchè tra le più autorevoli al mondo, ogni anno stila una classifica chiamata “FT 1000: Europe’s Fastest Growing Companies” e viene elaborata attraverso una complessa procedura che valuta la crescita di fatturato delle aziende europee che rispettano parametri quali un determinato ammontare di fatturato (oltre 1 mln) , l’azienda deve essere indipendente, la crescita dei ricavi nel periodo di riferimento deve essere principalmente organica, ecc. L’indagine, condotta da Statista e Financial Times, prende in considerazione diverse decine di migliaia di aziende di tutta Europa. Ebbene si, anche quest’anno il Financial Times ci include nella sua lista. Anche nel 2020 eravamo presenti ma quest’anno sento il traguardo ancora più importante per me visto che è esattamente a gennaio 2020 che ho cominciato la mia collaborazione con IQM selezione… questo riconoscimento vede quindi anche il mio apporto… sono davvero contenta! Tra l’altro, quest’anno siamo anche saliti di posto: siamo passati dal 960° al 920°, una crescita che premia tutti gli sforzi compiuti nei mesi scorsi, dinanzi ad una pandemia che ha messo a dura prova tutto il mondo e tutti i lavoratori. La lista completa è disponibile a questo link https://www.ft.com/content/8b37a92b-15e6-4b9c-8427-315a8b5f4332
Il Curriculum vitae, il nostro bigliettino da visita su PiazzaSalento del 18 febbraio 2021
26 Febbraio 2021
L’immagine di una “scuola inclusiva per tutti gli alunni”, ossia in grado di stimolare i propri studenti e di stabilire una solida collaborazione con le realtà extrascolastiche , è ad oggi imprescindibile. A questo modello si è ispirato l’ I.I.S.S. “G.Salvemini” di Alessano, nell’organizzazione delle tre “giornate del Salvemini” in collaborazione con Anpal e PCTO (ex alternanza scuola lavoro). Nel corso dell’iniziativa sono stati affrontati una molteplicità di temi relativi all’Università, e tutto ciò che concerne il mondo del lavoro, ne parlo qui. Con il mio intervento “Il curriculum vitae, il nostro bigliettino da visita”, ho approfondito con gli studenti la figura dell’ HR, la funzione del CV e la sua struttura, soffermandomi in particolare sul processo di autoconsapevolezza necessario per la definizione di un profilo che parli realmente di sé e che si dimostri vincente e incisivo per il mercato del lavoro. Il confronto con la generazione di “nativi digitali”, si è rivelato costruttivo e proficuo per entrambe le parti; i ragazzi hanno infatti accolto positivamente i consigli dati, maturando la volontà di guardare al futuro con un mindset positivo e – soprattutto – la capacità di riconoscere la loro unicità e l’importanza delle loro aspirazioni. Ringrazio inoltre PiazzaSalento per aver dedicato un articolo alla pregevole iniziativa, lo trovate al link in descrizione Alessano, i ragazzi dell’Istituto “Salvemini” proiettati al futuro: incontri su università e mondo del lavoro Di Maria Rosaria De Lumè -18 Feb 2021 Articolo scritto da Giulia Aretano per gostepup.it
Draghi in Senato: “Alcune attività devono cambiare radicalmente”. Ha ragione lui?
18 Febbraio 2021
“Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi.” Così il nuovo Presidente del Consiglio Mario Draghi si è espresso mercoledì 17 febbraio in Senato, ragionando sulle questioni legate al lavoro e alle attività economiche. Si tratta di una riflessione che merita di essere approfondita in modo accurato, senza pregiudizi. Ed è quello che ora vi propongo di fare insieme. Metto subito le mani avanti: io mi occupo di Risorse Umane e non mi importa nulla di addentrarmi in valutazioni di stampo politico oppure di fare la sostenitrice o la detrattrice di questo e quel governo-partito-personaggio politico-movimento. Ciò che mi interessa, invece, e anche parecchio, è approfondire il focus che l’ex Presidente della Banca Centrale Europea ha proposto nel suo lungo discorso a Palazzo Madama in merito alle condizioni di aziende e lavoratori. Voglio soffermarmi su un passaggio in particolare, quello in cui Draghi ha sottolineato come le aziende siano oggi chiamate a un nuovo tipo di sforzo, ovvero quello di entrare in una fase di cambiamento, necessario, fondamentale. Ha ragione? Davvero esiste oggi la necessità di cambiare, anche “radicalmente”? O si tratta solo di un escamotage per scaricare sulle attività commerciali le responsabilità politiche? Ve lo anticipo, per me è la prima. ”Abbiamo sempre fatto così” è morto EDIZIONE STRAORDINARIA: IL MONDO CAMBIA! E che vi piaccia o meno, è sempre stato così, ben prima dell’esplosione della pandemia. Ben prima che l’uomo inventasse la ruota. Eppure, non è raro imbattersi in aziendalisti in fissa con “il nostro metodo”, “le nostre tradizioni”, “i nostri sistemi rodati”. Nella mia carriera, ho avuto spesso a che fare con proprietari di attività commerciali ostinatamente decisi a preservare abitudini anacronistiche, ufficialmente perché convinti dell’efficienza di un certo modo di fare e di ragionare, ma in realtà – opinione personale – perché spaventati dall’idea di affrontare i cambiamenti. Non riesco a pensare a nulla di più dannoso: la società si modifica e, insieme ad essa, cambiano le logiche di mercato, i bisogni, le abitudini e i desideri degli utenti. Non esistono business che sfuggono a questa logica. Ciò nonostante, la ritrosia dei più conservatori aziendalisti nel mettere mano al proprio sistema produttivo non è una novità di oggi. Né di ieri. Di solito, questi sono soliti trincerarsi dietro argomentazioni del tipo: “Questa attività è in piedi da X anni ed è sempre andata bene”, come se i successi del passato fossero una garanzia per il futuro. Inutile dirvi che non è così: “Abbiamo sempre fatto in questo modo” è un’asserzione priva di basi strategiche, di programmaticità e di spirito imprenditoriale. Così è, se vi pare. E anche se non vi pare E oggi più che mai, il cambiamento è l’unica costante di cui disponiamo, sia che si parli di aziende e sia che si parli di lavoratori. È inutile far finta di niente, il Covid sta accelerando alcune dinamiche e ne sta innescando di nuove: il lavoro da remoto o il commercio elettronico, per fare due esempi particolarmente in voga, sono migliorie che attendevano alla finestra già da tempo e che il lockdown e le restrizioni stanno inevitabilmente facilitando. Il mondo del lavoro e quello del commercio devono accettare che non esiste una via alternativa, non esiste un modo per ritardare l’inevitabile. Ciò che possiamo fare noi, invece, è comprendere che il cambiamento non è una minaccia, ma un’opportunità. Davvero è così complicato da comprendere? C’era una volta… C’era una volta una grossa, grossissima società, leader di mercato nel comparto del noleggio. C’era una volta anche un’altra società, anch’essa operativa nello stesso segmento, molto più piccola, ma anche molto più disposta a mettersi in discussione e a domandarsi cosa avesse in serbo il futuro. La piccola azienda pronta a mettersi in discussione aveva avviato una serie di modifiche nel proprio sistema di distribuzione; poi, lentamente, iniziò anche ad estendere i propri interessi verso nuovi servizi. Intanto, la grande azienda leader di mercato continuava a crogiolarsi nella propria grandezza, sempre più convinta che mai nessuno avrebbe potuto buttarla giù dal suo piedistallo. Passarono i mesi, gli anni, e il mercato stava lentamente, ma inesorabilmente mutando. La gente aveva gradualmente perso l’abitudine del noleggio, ma la grande società continuava a dirsi convinta che mai nessuno avrebbe potuto scalfirla. Eppure i suoi negozi avevano iniziato a registrare bilanci in rosso, poi a chiudere. Il primo, il quinto, il centesimo, il millesimo… A un certo punto, la grande società si rese conto che non era più poi così grande. E qualche mese dopo ancora, non era più neppure una società: era fallita. E la piccola società nel frattempo? Sono sicura che la piccola società di cui parlo la conoscete bene, molto bene: si chiamava, e si chiama Netflix. La grande società invece? Se non siete troppo giovani, conoscete anche quella: si chiama, si chiamava Blockbuster. What else? Cogliete l’occasione! Se vogliamo trarre una morale – e noi vogliamo trarre una morale – è che il cambiamento in sé non è un bene né un male, ma è qualcosa di fisiologico, di naturale, di inevitabile. Altro e tanto inevitabile, però, è accogliere la logica dell’adattamento, necessaria per chiunque desideri sopravvivere; vale nel mondo aziendale, in quello del lavoro e persino nel regno animale: possiamo adattarci al cambiamento, sopravvivere e magari uscirne anche più forti di prima, oppure possiamo rifiutarlo, come fecero il mammut, la tigre della Tasmania e il cervo gigante: avete mai visto uno di questi esemplari? Ecco.
Intervento al Salvemini di Alessano “L’università e il Mondo del Lavoro” – 15-16-17 febbraio 2021
12 Febbraio 2021
E’ con grande entusiasmo che ho accettato l’invito dell’I.I.S.S. G. Salvemini di Alessano (LE), confermatasi anche quest’anno una delle migliori scuole del Sud Salento, rafforzando il suo ruolo di centro di cultura, punto di riferimento per tutto il Capo di Leuca. Nell’ambito del PCTO Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (ex Alternanza Scuola Lavoro), l’istituto ha organizzato tre giornate intense e ricche di contenuti per i giovani studenti di terzo, quarto e quinto superiore. Stimoli e nuovi orizzonti affinché si possa affrontare, con il giusto mindset e le giuste conoscenze, il mondo del lavoro oggi messo ancora di più a dura prova a causa della pandemia e dell’instabilità politica ed economica che stiamo tutti vivendo. Molti spunti di riflessione provenienti da protagonisti ed esperti del mondo del lavoro di oggi, di forte impatto per i ragazzi. Interverrò in apertura alla seconda giornata, martedì 16 febbraio 2021. Un’ora e mezza per dare una visione diversa del curriculum vitae: non un semplice documento ma il nostro migliore bigliettino da visita, uno strumento che per essere ben fatto ed efficace, richiede uno sforzo interiore in grado di innescare un viaggio diretto alla reale conoscenza di sè, delle proprie attitudini e desideri, al riconoscimento dei propri punti di forza, alla stimolazione verso il miglioramento dei propri punti critici e dunque alla migliore promozione della propria professionalità, per esseri pronti, da bravi “sales” a vincere la “trattativa” della conquista del posto di lavoro dei propri desideri. Subito dopo di me (e di questa cosa mi sento profondamente lusigata e perchè no, anche felicemente “terrorizzata”) interverrà il Prof. Fabio Pollice, Magnifico Rettore dell’UniSalento, università che mi sta particolarmente a cuore essendomi laureata proprio a Lecce. Inaugurazione e moderazione da parte della Dirigente Scolastica la dott.ssa Chiara Vantaggiato insieme al prof. Deodato Giovanni GUIDA. Ecco chi altro interverrà, a queste giornate Dott.ssa Paola ZECCA – ANPAL SERVIZI SPA Dott. Daniele MONTEDURO – Presidente Ordine provinciale del Periti industriali e periti industriali laureati Dott. Silvio ASTORE – direttore Centri per L’Impiego area Sud-Lecce Dott. Antonio CIRIOLO – direttore dell’Agenzia di Sviluppo Capo Di Leuca Dott.ssa Marina D’AMBROSIO – Manager & coordinatrice Sud Italia di Ja Italia, Impresa in azione Prof. Salvatore MANCARELLA – Ja Italia Teacher of the year 2020 Award Simone Martella e Luigi Nuccio – ex alunni impegnati nel progetto Ja Italia Dott. Attilio CAPUTO – Direttore di Caroli Hotels Dott.Matteo CORTESE – Responsabile marketing di Caroli Hotels Info e dettagli su https://www.salveminialessano.gov.it La locandina dell’evento
Esseri umani prima che professionisti: le emozioni sul posto di lavoro sono una risorsa!
8 Febbraio 2021
“Non dimentichiamo che le piccole emozioni sono i grandi capitani della nostra vita e che obbediamo a loro senza saperlo.” Vincent Van Gogh Oggi voglio parlarvi di una questione enormemente complessa. Ragion per cui, ho intenzione di farlo in modo circoscritto e di esprimermi solo attraverso la prospettiva che ho potuto acquisire sul campo, personalmente, svolgendo la mia professione di consulente e operatrice delle risorse umane. Voglio parlare delle emozioni sul posto di lavoro. Il modo in cui percepiamo le nostre emozioni, spesso, può confliggere con l’idea di dover “Essere un vero professionista”. Sembra quasi che le emozioni, sul posto di lavoro, siano qualcosa di negativo, di sbagliato. Se siamo arrabbiati, tristi, pensierosi, stressati non conta: ciò che conta è che le nostre mansioni vengano svolte in maniera ineccepibile, aderendo a standard di qualità e quantità prestabiliti. E forse c’è anche qualcosa di vero in questo: chi ci paga, si tratti di un’azienda per un lavoratore dipendente o del cliente per un autonomo, non ha interesse per quello che proviamo e per le nostre condizioni emotive, ma si aspetta che quanto richiesto sia consegnato nelle modalità e nelle tempistiche pattuite. E va bene, lo capisco, fin qui direi che non c’è nulla da eccepire… Cerchiamo di non banalizzare la questione Accettare asetticamente l’idea che “siamo tutti professionisti” può dare adito a incomprensioni, ad atteggiamenti superficiali e persino a pericolose sterotipazioni. Cercare di semplificare ciò che semplice non è, spesso, può portare guai! La questione, infatti, è molto meno lineare di così. Il punto è che siamo tutti esseri umani e, in quanto tali, per fortuna, proviamo emozioni. Non esiste un interruttore emotivo che ci permette di arrestare la modalità “umano” e di attivare quella “lavoratore”, non funziona così. Nessuno di noi è in grado di scegliere quali emozioni provare e quando provarle e, che ci piaccia o no, anche mentre svolgiamo il nostro lavoro, proviamo emozioni. L’emozione alla base del nostro agire Proviamo emozioni mentre svolgiamo un’attività delicata, le proviamo mentre interagiamo con un cliente o con un fornitore, le proviamo mentre siamo chiamati a prendere delle decisioni importanti. E di questo dobbiamo tassativamente tenere conto. Non farlo, infatti, può rivelarsi dannoso, oltre che immaturo. Il nostro cervello risente dei nostri stati d’animo: quando siamo felici siamo più portati a preservare le condizioni di partenza; se proviamo rabbia, siamo tentati dalla voglia di agire impulsivamente; se siamo demoralizzati ci lasciamo sedurre dall’inerzia; eccetera, eccetera. Le emozioni sono alla base del nostro comportamento e sono tutte utili. Proviamo paura perché essa ci permette di essere prudenti oppure ci prepara a reagire nel caso fosse necessario farlo. La paura esiste da sempre, è connaturata all’esistenza umana e alla sua preservazione sulla Terra, ci prepara alla fuga oppure alla lotta. Certo, oggi non siamo più vittime dell’attività predatoria.. o perlomeno, non in senso stretto. Eppure, la realtà aziendale ricalca, in una forma civilizzata e meno istintuale, le stesse dinamiche dello stato di natura. Sappiamo come funziona: bisogna sapersi difendere e attaccare. Dobbiamo essere abili a tutelare il nostro posto di lavoro o provare a elavarlo, affrontare la concorrenza, procacciarsi risorse. Come possono le emozioni non avere un peso in tutto ciò? Riconoscere le emozioni e gestirle Le emozioni esistono, sono parte di noi, costantemente. In qualunque momento, proviamo qualcosa e lo facciamo anche durante il turno di lavoro. Questo va accettato e, soprattutto, gestito. Se stiamo vivendo un momento di stress, dobbiamo avere il coraggio e l’umiltà di riconoscerlo e di comprendere che, forse, non è il momento giusto per prendere una decisione importante. Se vivo un periodo di tristezza, magari devo saper elaborare quella sensazione e darle un significato, capire da dove scaturisce e come mandarla via: potrei aver bisogno di svolgere nuove attività, di cambiare incarico o semplicemente di un periodo di riposo. Niente che non si possa risolvere con il dialogo, ma prima è necessaria una presa di consapevolezza. Può capitare che mi senta irascibile, deconcentrato, nervoso. Passerà, passerà in breve, ma per il momento è il caso di evitare scontri in ufficio, perché non sarei in grado di gestirli funzionalmente. Questi sono solo alcuni di centinaia di esempi che potrei addurre, ma non mi interessa farlo. Più che altro, mi interessano le conclusioni che ne scaturiscono, che poi coincidono con la premessa: le emozioni sono parte di noi. Possiamo provare a soffocarle, ma sarebbe uno sbaglio. Oppure possiamo accoglierle, conoscerle, comprenderle, le nostre e quelle di chi ci sta accanto, in modo da preservare la nostra unicità di essere umano e professionista. Immagine: il fiore di Plutchik
Ehi! Tu che cerchi lavoro, ti sei mai guardato dall’esterno? E cosa vedi?
7 Dicembre 2020
Quali sono i pensieri che vi guidano mentre compilate il vostro curriculum vitae? Quali sono gli elementi su cui fate leva durante un colloquio di lavoro? Mentre rispondete a una mail professionale, vi chiedete mai a cosa pensano coloro che la riceveranno? Queste domande sono molto meno banali di ciò che possa sembrare e mi servono per introdurre l’argomento di questo articolo: la mancanza di empatia dei job seeker (chi cerca lavoro) nei confronti di chi li esamina, li valuta e (ci si augura) li sceglie. Esatto: spesso, molto spesso, coloro che si propongono per una posizione aperta perdono di vista il focus, dimenticano che dall’altra parte ci sono delle persone prima che dei professionisti, persone che si fanno una loro idea sul candidato processando informazioni e segnali che, spesso, neppure ci accorgiamo di trasmettere. LEGGI ANCHE: Alzarsi dal letto… di Procuste: le relazioni tossiche sul lavoro Come per le aziende, così per i professionisti… Anche stavolta, lo spunto mi è stato fornito da un ottimo articolo di Riccardo Scandellari che, per attitudini e interessi divergenti dai miei, si è concentrato sul punto di vista delle aziende, denunciando come queste, non di rado, si facciano condizionare dal desiderio di proiettare un’immagine vincente di sé, facendo leva magari sulla forza di numeri e statistiche, ma di fatto dimenticandosi quello che c’è dall’altra parte. O meglio, CHI c’è dall’altra parte. Così mi sono detta: “Beh, il discorso si applica alla perfezione anche a chi cerca lavoro, seppure con dinamiche e comportamenti differenti”. E allora, eccomi qui a fornire il mio contributo sulla questione, ma rivolgendomi a coloro che cercano lavoro. Porsi dall’altra parte, guardarsi dall’esterno La questione, dicevo, è la stessa: che si parli di aziende o di job seeker, è evidente come chi comunica se stesso, spesso, dimostra scarsa considerazione per chi ascolta, per le sue esigenze e le sue aspettative. A cambiare, che si parli di brand o di professionisti, sono semmai i mezzi impiegati. E se un’impresa si racconta attraverso i propri canali istituzionali, il cercatore di lavoro lo fa mediante il cv, i propri profili social e, ancor più, in sede di colloquio. Cosa vuoi dire? Che reazione vuoi suscitare? Dunque, gli errori in cui incappano le aziende sono i medesimi commessi dai professionisti. Uno su tutti riguarda l’attenzione, spesso morbosa, nei confronti della quantità a discapito della qualità. Qualche esempio può aiutare la comprensione: le aziende sovente sono fin troppo concentrate sull’obiettivo di pompare i propri numeri: quelli relativi ai follower e alle reazioni sui social, alle visite sul sito, alla quantità di canali in cui appare il proprio nome. Traslando questo discorso sui professionisti, scopriamo come essi si preoccupino spesso di fare bella impressione mostrando la quantità enorme di esperienze che hanno totalizzato, la mole di progetti che hanno gestito, l’enormità di skills che dichiarano di possedere e di tools che sono in grado di utilizzare. Il tutto, perdendo di vista ciò che dovrebbe essere, viceversa, il loro vero obiettivo: suscitare un’impressione positiva, d’impatto, efficace. In poche parole: trasmettere fiducia. Cambiamo approccio? Qual è l’approccio alternativo a quello descritto finora? Intanto, ciò che occorre è un vero e proprio cambio di paradigma: smetterla di pensare che la quantità faccia la qualità e iniziare a preoccuparsi di come le nostre informazioni vengono processate da chi ci sta di fronte (fisicamente o telematicamente). Provate a porvi questa banalissima (?) domanda: come reagirei io se ricevessi un curriculum come il mio? Magari avete strutturato il vostro cv in modo da renderlo densissimo di informazioni. Ma come vengono processate queste informazioni da chi non ci conosce e sta imparando a farlo attraverso il cv? Potrebbe essere che, con il nuovo approccio che provo a suggerirvi, vi rendiate conto che il vostro curriculum difetta in fruibilità, linearità, che sia troppo ricco di informazioni, molte delle quali superflue e che, chissà, potrebbero distogliere da quelle che invece sono utili all’esaminatore. Potrebbe essere che un profilo così pieno di zeppo di informazioni non sia in grado di fare emergere le vostre reali attitudini. Conosci te stesso… e racconta chi sei Ciò che occorre è, dunque, un processo di autoanalisi. Domandatevi: quali sono i miei reali punti di forza? Perché un’azienda dovrebbe scegliere me e non i miei concorrenti? E i miei punti di forza sono posti in evidenza? Li ho raccontati nel modo più opportuno? Perché, è bene che lo sappiate, a un manager d’azienda interessa poco se sapete utilizzare mille dispositivi, se siete in grado di eseguire decine di operazioni, a lui interessa che le vostre competenze specifiche siano sviluppate adeguatamente agli standard aziendali e che le vostre attitudini caratteriali, emotive, professionali siano in grado di armonizzarsi con il contesto aziendale. Queste sono informazioni che avete saputo trasmettere? LEGGI ANCHE: Nuovo Curriculum Vitae Europass 2020: il mio primo libro sulle Risorse Umane e il Recruiting Chi sei è più importante di cosa sai Volendo esprimere in modo semplice e sintetico il concetto fondamentale di questo articolo, possiamo dire che chi sei conta di più di ciò che sai. Non è tanto la quantità di esperienze e di competenze a fare ciò siamo, ma le nostre predisposizioni e i nostri talenti specifici. E dall’altra parte, che sia attraverso il cv o in sede di colloquio, è questo che gli esaminatori (quale io stessa sono) vogliono conoscere. Sta al candidato, però, predisporre un sistema di comunicazione davvero efficace, che sappia prescindere dalle statistiche e porre la nostra identità al centro della narrazione. Foto created by gpointstudio – www.freepik.com
Alzarsi dal letto… di Procuste: le relazioni tossiche sul lavoro
30 Novembre 2020
Secondo la mitologia Greca, Procuste fu un gigante e bandito dell’antica Attica, il cui vero nome era in realtà Damaste (o Polifemone). Egli viveva sul monte Coridallo, che fu il teatro delle sue ignobili gesta: Procuste, infatti, era solito irretire i malcapitati viandanti che si imbattevano in lui durante il cammino, attirandoli a sé con il pretesto di un comodo giaciglio. Una volta condotte le vittime nella sua dimora, egli le costringeva su un’incudine a forma di letto e lì le torturava: i più alti subivano l’amputazione degli arti, in modo che non sporgessero dal letto, mentre i più minuti subivano lo stiramento e il taglio delle ossa, in modo da far combaciare la lunghezza del corpo a quella dell’atroce talamo. Perché parlare di Procuste? Il mito ha acquisito un forte valore simbolico nel corso dei secoli. Oggi, quando si parla di Letto di Procuste si fa riferimento alla necessità di adattarsi a situazioni estremamente scomode o che non dovrebbero essere tollerate. Secondo un’altra accezione, il letto di Procuste è il simbolo dell’atteggiamento mentale proprio di chi cerca di ridurre ogni situazione ad un solo modello interpretativo. Ma perché ci interessa parlare di Procuste, di mitologia greca e di aberranti violenze? Ovviamente, Procuste è un simbolo, ma non è solo per quello che ho scelto di parlarne. Parto col dire che, oltre in mitologia, Procuste è noto anche in ambito psicologico: la Sindrome di Procuste è una patologia particolarmente grave che affligge coloro che reagiscono con dispiacere profondo o persino con angoscia ai successi altrui. Attenzione, però, non fatevi ingannare: questo non è un pezzo sull’invidia. O meglio, non è quello il tema centrale. Procuste di ieri e Procuste di oggi Insomma, di ‘Procuste’ ne esistono tantissimi e, spesso, ognuno di noi si trova nelle condizioni di averci a che fare, specie in ambito professionale. In questi giorni riflettevo su uno scenario lavorativo che mi aveva visto coinvolta non più di qualche settimana fa: da fuori, un ambiente ideale, propositivo, ispirante, motivante; dall’interno… beh, inizialmente lo era anche visto dall’interno. Poi, però, ho iniziato a percepire qualcosa che non andava. Non saprei raccontare esattamente che cosa, ma il mio sesto senso non faceva che strepitare: “Sta’ Attenta Lisa, qualcosa qui non torna!” Come volete che sia andata a finire? Il mio sesto senso aveva ragione; il progetto è naufragato e io mi sono ritrovata a fare i conti con la “sconfitta” (ma lo era davvero?) e con quel fastidiosissimo senso di disfatta che ne deriva. Eccomi lì, ancora una volta a pormi domande su me stessa, a interrogarmi su dove sbagli e su cosa possa fare per migliorarmi. A chiedermi perché, nonostante la mia fede cieca nei confronti del team building e delle relazioni umane, mi trovassi una volta di più a metabolizzare una partnership finita male. Dove sbaglio? Sarò mica fatta male? E’ davvero così? L’epifania: siete voi Procuste! Ero nel pieno della mia auto-analisi, quando ho ricevuto una mail, una newsletter di Riccardo Scandellari, come sempre illuminante. Questa volta, oltre alla solita indubbia qualità del contenuto, a colpirmi è stato anche il tempismo: la mail parlava appunto di tutti questi ‘Procuste’ che infestano il mondo del lavoro; la mail arrivava persino a identificarne un identikit: i ‘Procuste’ sono quelle persone che si sentono minacciate dall’intraprendenza dei colleghi, quelli avari di complimenti in pubblico, ma persino troppo generosi di privati encomi. E poi sono quelle persone egocentriche, refrattarie ad ascoltare gli altri e ardentemente desiderose di raccontare di sé, tendenzialmente portate a criticare gli altri in loro assenza, spesso con tono particolarmente aspro, pungente, sardonico. E lì c’è stata la mia epifania: ha ragione! Non sono io il problema, sono loro! Ho avuto a che fare con tanti ‘Procuste’ e quasi non me ne stavo rendendo conto, stavo dando la colpa a me stessa, mi stavo flagellando per colpe che non avevo. E sì che tendo a essere molto autocritica, ma questo non può tradursi in mortificazione e catene di cilicio! E allora ho reagito… Non aspettavi un finale movimentato; non vi racconterò di me che sbatto la porta o che insulto chicchessia. La mia reazione è stata decisamente più misurata, ma anche molto più funzionale e costruttiva per il mio benessere e il mio equilibrio mentale: semplicemente, ho preso consapevolezza, di tutto. Ci sono professionisti che vivono con ostile rivalità il rapporto con i propri colleghi. Ci sono personalità che molto facilmente si sentono minacciate dalle novità, dalle iniziative altrui, dal carisma degli altri, dalla loro propositività, dalla competenza, dalla bellezza, dallo stile, dai temporali e dalla propria stessa ombra. Spesso, molto spesso, la loro avversione deriva da una mancanza di sicurezza nei confronti di se stessi, il loro astio dal timore di sentirsi sminuiti nella loro posizione professionale. E le contromisure, talvolta, possono rivelarsi meschine, orientate a limitare le iniziative degli altri, a sminuirle, a deprezzarle. C’è chi agisce in modo leggibile, palesando malsopportazione e antipatia attraverso toni sprezzanti e sarcastici. E c’è chi invece adotta un approccio molto più subdolo, magari arrivando persino ad adottare manovre doppiogiochiste pur di mettere in cattiva luce gli altri. Non voglio compatirli, non voglio giudicarli: si tratta, semplicemente, di prenderne atto. Riconoscere le persone negative, non lasciarsi condizionare Bene, se la vostra idea è quella di combattere ogni Procuste che incontrerete sul vostro cammino, magari usando le sue stesse armi, io credo che corriate il rischio di farvi molto male. Ma quel che è peggio è che finireste con l’imbruttire voi stessi. Il consiglio che vi do è, prima di tutto, di imparare a riconoscerli per tempo e prendere le opportune contromisure. Quali? È sufficiente tenerli alla larga. E se non possiamo evitarli, possiamo quantomeno controllare gli effetti delle loro azioni su di noi, ad esempio tenendo a mente quanto poco valga la loro opinione.
Nuovo Curriculum Vitae Europass 2020: il mio primo libro sulle Risorse Umane e il Recruiting
12 Agosto 2020
Emozionata? Moltissimo! Oggi 12 agosto 2020 ti presento ufficialmente il mio primo libro sulle Risorse Umane e sul Recruiting: NUOVO CURRICULUM VITAE EUROPASS 2020. L’occasione è giunta con il nuovo europass 2020, il curriculum vitae formato europeo amato ed odiato ma che ha ancora tutto un suo perchè, recentemente oggetto di restyling. Ho analizzato i pro e i contro di questo formato di cv ma, cosa più importante, al suo interno troverai una vera e propria guida passo passo per la compilazione del tuo curriculum, con numerosi suggerimenti da recruiter per una selezione più efficace. Ho messo dentro anche tantissimi consigli utili per guidarti nel difficile e complesso mondo delle selezioni del #personale di oggi. L’ho scritto con un linguaggio semplice, chiaro e diretto, adatto a chiunque soprattutto a chi ha scarsa confidenza con il digitale o non ha alcuna esperienza con il recruiting. Ringrazio gli amici e colleghi Danilo De Luca e Gioella Gagliardo per il loro supporto tecnico, professionale ma anche umano! Dove acquistarlo? In tutte le librerie online e fisiche in versione cartacea oppure ebook Sinossi del Libro Il libro analizza il nuovo curriculum vitae Europass 2020 formato europeo, recentemente interessato da un’attività di aggiornamento e restyling. Nella prima parte della trattazione viene fornita una disamina sui pregi e sui difetti del classico curriculum vitae europeo 2013, quindi viene effettuato un confronto con la nuova versione 2020 per verificare se e in che misura l’upgrade del cv colma le proprie vecchie e cronicizzate lacune. Nella seconda parte viene testato il nuovo Europass 2020: viene fornita una vera e propria guida passo passo per la compilazione del proprio curriculum vitae, con numerosi suggerimenti forniti dai recruiters per una corretta e più efficace compilazione. Il libro propone inoltre consigli utili per guidare il candidato nel difficile e complesso mondo delle selezioni del personale: cosa e come pensano i recruiters quando leggono il cv, modalità e criteri adottati per lo screening, strategia per valorizzare se stessi. Il libro è scritto con un linguaggio semplice, chiaro e diretto, in modo da facilitare la comprensione a chiunque, anche per coloro che dimostrano scarsa confidenza con il mezzo digitale o non possiedono alcuna esperienza in relazione alle attività di recruiting. Dove acquistarlo? In tutte le librerie online e fisiche in versione cartacea oppure ebook Indice degli argomenti trattati Indice Note introduttive PARTE PRIMA Europass 2013 vs Europass 2020: la svolta? Europass: pregi Curriculum europeo sì o no? La mia risposta è: assolutamente Sì. E vi spiego perché. Europass: difetti e critiche Europass: è dispersivo Europass: non dà spazio alla persona Europass: non dà senso alle nostre esperienze diversificate Europass non aiuta chi è fermo da tempo PARTE SECONDA Nuovo Europass 2020 Europass modificabile da pc: download file .doc Europass 2020: compilazione online Tutorial: Europass 2020 1) SITO EUROPASS 2) REGISTRAZIONE UTENTE E PROFILO 3) CREA IL TUO EUROPASS 4) DATI PERSONALI: anagrafica Compilare tutto? NO! Data di nascita: età si o no? Foto nel curriculum: sì o no? Il proprio genere: essere umano! Recapiti e contatti: fatti trovare! Email: serietà, please! Residenza e domicilio E se volessimo lavorare in una città diversa da quella in cui ci troviamo attualmente? Social network: cura in maniera maniacale la tua digital reputation LinkedIn ci dà tanta visibilità: sfruttiamola! 5) ESPERIENZE PROFESSIONALI L’ordine di inserimento: prima la più recente Quali e quante esperienze inserire? Mansioni e responsabilità: dettagli che fanno la differenza Periodo di lavoro Fascicolo INPS online L’alternanza scuola-lavoro o il tirocinio universitario vanno inseriti nelle esperienze professionali? Non ho nessuna esperienza professionale: ha senso avere un curriculum vitae? Ho sempre lavorato in nero: nessuno mi ha mai assunto, che scrivo sul curriculum? 5.2) Esperienze professionali: quando vanno inserite le ULTERIORI INFORMAZIONI 5.3) Aggiungi nuova esperienza lavorativa Quanto dettagliare le esperienze professionali più vecchie? 6) ISTRUZIONE E FORMAZIONE Sto seguendo un corso, ancora non l’ho terminato e non ho l’attestato, va comunque inserito nel curriculum? Punteggi e valutazioni scolastiche: sì o no? Argomento della Tesi: sì o no? 6.2) Ulteriori informazioni anche per istruzione e formazione 6.3) Aggiungi nuove esperienze di istruzione e formazione 7) COMPETENZE INTERPERSONALI 7.2) Competenze linguistiche Autovalutazione della conoscenza linguistica: dire sempre la verità! Ho una certificazione, ma è da tanti anni che non parlo quella lingua, che livello di conoscenza inserisco? Non conosco nessuna lingua oltre l’italiano: sono destinato a non trovare lavoro? 7.3) Competenze digitali L’inutilità della patente europea Google Digital Training: la piattaforma gratuita per aggiornarsi continuamente 7.4) Altre competenze 8) Profilo completato 9) Il Curriculum vero e proprio (il file PDF) 9.2) Revisione del cv: scelta obbligata per inserire nuovi dettagli e competenze La presentazione: parla di te Riorganizzazione dei blocchi Altre competenze: attitudini, soft skills, interessi a) Attività sociali e politiche b) Competenze comunicative e interpersonali c) Competenze di gestione e direttive; competenze organizzative d) Conferenze e seminari e) Hobby e interessi E se non abbiamo nessun hobby o non pratichiamo nessuno sport? f) Lavori creativi g) Onorificenze e riconoscimenti h) Patente di guida / automunito i) Pubblicazioni j) Referenze Lasciarsi sempre bene k) Reti ed associazioni di appartenenza Nuovi Layout Europass 2020 Salvataggio in PDF Rinomina correttamente il tuo curriculum Candidature via email e tramite applicazioni CONCLUSIONI⠐ Europass 2020 è davvero più accattivante ed efficace? Dove acquistarlo? In tutte le librerie online e fisiche in versione cartacea oppure ebook
Dior, il Salento e il lavoro geniale perduto nella diaspora del nuovo millennio
23 Luglio 2020
Dior ha scelto Lecce come una delle tappe del suo tour di sfilate 2020 e la notizia, ovviamente, in città ha fatto sin da subito grande scalpore. Noi gente del Sud siamo fatti così; siamo distanti, periferici, il mondo ci ignora e quindi, una volta tanto che ci ritroviamo i riflettori addosso, si risveglia in noi l’orgoglio patriottico sopito. Ognuno ha interpretato questo evento un po’ come ha creduto lecito: come al solito, si è venuta a creare una contrapposizione, due schieramenti, quelli dei ‘pro’ e quello dei ‘contro’. E giù di pettegolezzi, rumors sui vip che avrebbero aderito alla kermesse, critiche spesso incoerenti e male argomentate. Il chiacchiericcio è aumentato soprattutto nei giorni immediatamente precedenti alla grande sfilata che ieri, 22 luglio 2020, si è tenuta in Piazza del Duomo a Lecce. Non mi occupo di moda, non mi occupo di eventi né di movida, ma in questa manifestazione internazionale, non ho potuto fare a meno di pensare al mercato del lavoro salentino. Vi spiego perché. Innanzitutto, va visionato e analizzato attentamente questo video della durata di 26 minuti. La mia attenzione si è focalizzata, non tanto sui vestiti, quanto su tutto il contesto, sulla musica, sullo spettacolo che è stato creato attorno alla sfilata. Lo show di Dior inorgoglisce qualsiasi salentino, ma anche chiunque ami questa terra: tutta la nostra cultura è rappresentata, o meglio accennata, quasi come una poesia che delicatamente vuole narrare una storia ed esibire una tradizione che invece, nella sua versione originale, è impetuosa, passionale, battente, a tratti aggressiva, energica. In questi 26 minuti ho percepito l’essenza più elegante, geniale, spettacolare di una pizzica interpretata egregiamente da cantanti, musicisti e soprattutto ballerini: la musica dal vivo che quest’anno non accompagna la nostra estate, un corpo di ballo espressivo, dapprima lento, quasi impercettibile nei movimenti. Le gonne lunghe delle ballerine in velo, raffinate, moderne e tradizionali nello stesso tempo. Movimenti che si armonizzano perfettamente alla passerella, alle modelle che sfilano completamente indisturbate da ciò che le circonda. Le luminarie maestose che riempiono una piazza immensa, rendendo le persone presenti talmente piccole da farle sembrare sospese in una dimensione altra. Le scritte, in inglese e francese, parlano chiaro: “You are enough. Breathe” Sei abbastanza. Respira; “Time for equality is now” Il momento dell’uguaglianza è ora “La differenza per le donne sono millenni di assenza dalla storia” Frasi semplici e dirette, egregiamente spiegate da un post letto su facebook di Anna Puricella, Giornalista di La Repubblica a Bari che riporto integralmente Il fazzoletto in testa. Più che nelle luminarie, io la mia “terra del rimorso” l’ho trovata lì: nel fazzoletto di mia nonna, delle nostre nonne, simbolo di fatica e sudore nei campi, prima che di pudore. Le modelle di #Dior lo indossavano quasi tutte. E non era vezzo, era orgoglio. “You are enough. Breathe” era una delle tante frasi che si leggevano fra le luci sfavillanti. “Sei abbastanza. Respira”. Sei donna, non hai colpe, anzi. Non devi vergognarti più. Se vi siete fermati all’effetto sagra, alla pizzica dominante, vi è sfuggito il dettaglio: Dior ha celebrato le donne non tanto nella loro bellezza, ma nella capacità di riscatto. Le tarantate lo sanno bene: cresciute senza voce, sottomesse e subalterne, si potevano far sentire solo fingendosi isteriche, malate. Remissive, da guarire. Fra i tamburelli e le coreografie, durante la sfilata, le loro urla però si sono sentite benissimo. Urla, non canto. Però ora hanno alzato la testa, le tarantate, come le modelle. Fiere, proprio perché donne. #weshouldallbefeminists #mariagraziachiuri E mentre leggevo queste parole, ascoltavo Giuliano Sangiorgi intento a interpretare una canzone a cui tengo particolarmente, perché mi ricorda la mia amatissima Polignano, ma soprattutto esprime il dolore e la voglia di rinascita che ognuno di noi ha almeno una volta provato nella vita: è lì in quelle parole di Domenico Modugno e la sua Meraviglioso che mi scattano dei pensieri. Ho visto un mix densissimo di estro, arte, duro lavoro: salentini che per emergere hanno dovuto lasciare questa terra, emigrare, spostarsi in quelle parti del mondo in cui potevano essere ascoltati, conosciuti, apprezzati. Trasferimenti che sono stati fonte di dolore, ma anche di tante magnifiche soddisfazioni. Ma senza quegli spostamenti, molti di loro difficilmente sarebbero riusciti a esprimersi e a farsi conoscere per il proprio merito. Allora il pensiero è stato automatico, così come ha sottolineato anche la giornalista Puricella descrivendo le donne tarantate: “cresciute senza voce, sottomesse e subalterne, si potevano far sentire solo fingendosi isteriche, malate. Remissive, da guarire”. Questa remissione è malattia che oggi colpisce i centinaia di lavoratori del Meridione, del Salento: quanti ragazzi volenterosi, capaci, preparati non riescono ad emergere, ad avere una degna carriera professionale? Quanti di loro sono costretti a scegliere se trasferirsi al Nord per cercare di realizzarsi oppure rimanere al Sud, accettando condizioni di lavoro che ledono la stessa dignità dell’uomo? Quanti potenziali manager sono oggi costretti, per dare da mangiare ai propri figli (parliamo di racimolare un fisso da almeno 700 euro per campare), ad accettare lavori poco qualificanti? Nel Salento il mercato del lavoro è ancora fatto, in gran parte, di schiavi e padroni: se rimani al Sud devi accettare che questo passa il convento. Non esiste formazione, non esiste progettualità: nessuno vuole credere nelle persone, nessuno insegnare loro come va svolto quel lavoro, eppure tutti si lamentano che non ci sono professionisti e lavoratori. E nel frattempo, passano mesi ed anni, i nostri figli crescono con la convinzione che il mondo del lavoro sia solo questo: accettare la nuova schiavitù abbandonare qualsiasi sogno professionale scegliere tra la carriera o la maternità rinunciare alla propria felicità rinunciare ad essere persone fiere di se stesse Meno male che questo discorso non vale per tutte le realtà salentine e pugliesi. Ci sono quelle corrette, trasparenti, quelle che investono sul personale e sulla loro formazione, quelli che ti accolgono come una di famiglia e ti aiutano nel percorso di crescita anche professionale. Ci sono ma sono ancora
La Generazione Z: i giovani di oggi, i dirigenti di domani
3 Giugno 2020
La Generazione Z comprende tutti i ragazzi e i bambini nati, orientativamente, tra il 1995 e il 2010 (in attesa che venga coniata una definizione anche per la generazione che seguirà, e visto che la zeta è l’ultima lettera, sono molto curiosa di scoprirla). Per comodità, più funzionale che antropologica, possiamo includere nella Generazione Z tutti coloro che sono nati nel terzo millennio. E non c’è dubbio che parliamo di una nuova stirpe di giovani, distanti per conformazione mentale, usi, attitudini, rapporto con le tecnologie, da quelle che la precedono. LEGGI ANCHE: Dagli over 60 ai dirigenti di domani, dai Baby Boomers alla Generazione Z Pregiudizi e le difficoltà di comprensione Approcciandosi con leggerezza alla Generazione Z, diventa fin troppo semplice cadere in un errore banalissimo: quello di giudicare. E no, non ne parlo in un senso ‘biblico’, ma più che mai concreto, fattuale: le generazioni precedenti, la mia compresa, sono totalmente incapaci di comprendere la nuova, quella che, di fatto, ha il futuro in mano. Mi viene in mente un vecchio adagio, che torna utile fin troppo spesso e in molteplici situazioni della vita comune: quando non si capisce qualcosa, si dice che è sbagliata. Effettivamente, a mio modo di vedere (parlando da professionista del comparto risorse umane, non da sociologa, ma neppure da ‘privato cittadino’), il problema di dialogo tra la Generazione Z e le altre esiste. Esiste, ed è a senso unico, perché è una questione che pare interessare più che altro a chi di quella generazione non ne fa parte, non ai ragazzi che oggi hanno appena 20 anni, i più anziani! LEGGI ANCHE: Lavoro, generazioni a confronto: i Baby Boomers, quelli nati nel boom economico LEGGI ANCHE: La Generazione X: i ragazzi dell’era post ideologica Risorse immani e un futuro davanti: chi sono i ragazzi della Generazione Z Proviamo quindi a comprendere questa generazione, la generazione di domani, senza alcun pregiudizio. Oppure proviamo a partire proprio da questi per svelarne l’infondatezza, iniziando dal più aberrante: i giovani di oggi (e già, alla fine sono arrivata a dirlo anche io) sono superficiali. Cosa c’è di vero in questa affermazione? Forse tutto, forse niente. Di certo, manca un pensiero critico. Che significa essere superficiali? E fino a che punto esserlo a 15 o 20 anni rappresenta un peccato mortale? Sarà che forse regna anche, sottopelle, un velo di invidia? I boomers, e su questo non c’è dubbio, sono cresciuti molto più in fretta. I ragazzi della generazione X lo hanno fatto con meno spensieratezza. Molti dei Millennials lo devono ancora fare. Certamente, la crescita si lega all’assunzione di responsabilità, che a sua volta si lega strettamente alla carriera, all’acquisizione di una posizione lavorativa. Gli under 20 di oggi frequentano ancora la scuola o, al più, iniziano l’università. Si istruiscono, ma lo fanno in un modo e con delle risorse che nessun’altra generazione ha mai conosciuto prima. Conoscono le lingue, parlano inglese meglio di chiunque altro, conoscono a menadito le logiche del web, esperiscono la propria esistenza con l’ansia sociale dell’esposizione mediatica, ne gestiscono i traumi o la trasformano in una risorsa. LEGGI ANCHE: Millennials: confidenti col digitale, precari nel lavoro Diversi non significa peggiori Una cosa è certa: i ragazzi della Generazione Z sono diversi da chiunque altro. Il problema siamo noi, che pretendiamo di dare una direzione al cambiamento, un segno: perché diverso non significa peggiore. Quelli che oggi stanno imparando a essere uomini e donne di domani non possiedono competenze meccaniche o manuali paragonabili a quelle di chi li ha preceduti, anche perché è il mondo che, progressivamente, si allontana dalle logiche della meccanica e abbraccia quelle del digitale. E lì sì che non temono il confronto, lì dimostrano la loro marcia in più: gestiscono una pluralità di operazioni complesse senza stress, imparano a utilizzare nuove piattaforme nello stesso tempo che occorre a un adulto solo per comprenderne l’utilità, sperimentano, apprendono, crescono. Forse siamo costretti a firmare la resa: vanno a una velocità che noi non possiamo sostenere. Sono il futuro, sono un futuro che noi non sapremo reggere. Concludo l’articolo come ho terminato gli altri in cui ho parlato delle generazioni: ci sarebbe molto, molto altro da dire, ma non è questo il luogo. Per questo, vi invito a scaricare il mio ebook, in uscita a breve! Restate aggiornati tramite il mio blog e sui miei profili social! Facebook / LinkedIn/ Instagram PRENOTA LA TUA COPIA GRATUITA DELL’EBOOK SULLE GENERAZIONI I primi 100 indirizzi email, avranno diritto alla copia gratuita dell’ebook! Foto: Scuola foto creata da freepik – it.freepik.com
Millennials: confidenti col digitale, precari nel lavoro
20 Maggio 2020
Il nostro viaggio intergenerazionale prosegue. Nel primo articolo ho offerto una panoramica completa sulle quattro generazioni che oggi compongono in massima parte il tessuto socio-economico nazionale. Poi ho dedicato un secondo articolo ai Baby Boomers e un terzo alla Generazione X. Adesso mi concentrerò sulle donne e sugli uomini nati tra il 1980 e il 1999: i Millennials, detti anche quelli della NetGeneration o Generazione Y. I Millennials e la digitalizzazione Oggi i Millennials hanno un’età compresa tra i 21 e i 40 anni. Capiamo bene che tra una persona di mezza età e una che ha appena superato il periodo dell’adolescenza esistono, e sono evidenti, non poche differenze. Dovendo però provare a delineare un profilo tipo del Millennial, una delle caratteristiche principali su cui vale la pena soffermarsi è certamente quella che ha a che fare con il nuovo rapporto con le tecnologie digitali. A metà degli anni ‘90, i più ‘anziani’ esponenti della Generazione Y avevano circa 15 anni, i più giovani non erano neppure nati. Ecco perché i Millennials sono definiti anche NetGeneration, la generazione della rete, di internet. Sono i primi della storia a crescere parallelamente alle nuove infrastrutture digitali e il loro approccio nei confronti di internet non è più, come nel caso della Generazione X, di mero adattamento. La comunicazione web per i Millennials I Millennials hanno vissuto con meraviglia le prime sperimentazioni web in ambito comunicazione e hanno imparato a modellare le loro modalità di gestione delle relazioni in base anche alle evoluzioni del mondo digital. Hanno assistito alla nascita dei primi embrionali sistemi di social networking e sono stati loro ad alimentarli, a popolarli e a direzionarli. I Millennials non sono stati scavalcati da un nuovo modo di intendere i concetti di spazio e tempo, semmai lo hanno incoraggiato e hanno partecipato attivamente alla creazione dell’immaginario della società virtuale, quello della globalizzazione intesa come processo di rottura delle barriere fisiche e mentali. Ciò che il mondo è oggi è, in buonissima parte, ciò che i più intraprendenti esponenti della Generazione Y hanno fatto in modo che sia. Per la prima volta, il rapporto tra tecnologie web ed essere umano si delinea alla giusta velocità. Non si può però parlare di nativi digitali poiché i Millennials hanno vissuto la loro infanzia in un mondo ancorato alle tecnologie analogiche, hanno familiarità col tubo catodico, col VHS, con il walkman, con le audiocassette da riavvolgere attraverso una penna BIC. E se non sapete di cosa stia parlando, quasi certamente siete parte della Generazione Z. Le nuove logiche professionali: il lavoro flessibile e precario C’è forse una parola che sintetizza nel modo più efficace il nuovo rapporto tra professionista e mondo del lavoro: flessibilità. Flessibilità che, a guardare bene, è in realtà un eufemismo per definire una nuova modalità collaborativa che vede il professionista perdere tutele e velleità di qualsivoglia impiego stabile, in favore del precariato. Il posto fisso è pressoché scomparso, ma quelli della Generazione Y non si disperano per ciò, perché in realtà non ne hanno mai fatto esperienza, non si sono mai abituati al lusso di un percorso professionale capace di offrire rassicurazioni sul lungo periodo. Siamo nell’era delle Partite IVA, dei contratti a progetto, degli stage non retribuiti. Siamo nell’era del “Che noia il posto fisso”. Anche qui, come negli altri articoli, c’è tantissimo altro da approfondire e troppo poco spazio per farlo. Per questo, vi invito a scaricare il mio ebook, in uscita a breve! Restate aggiornati tramite il mio blog e sui miei profili social! Facebook / LinkedIn/ Instagram PRENOTA LA TUA COPIA GRATUITA DELL’EBOOK SULLE GENERAZIONI I primi 100 indirizzi email, avranno diritto alla copia gratuita dell’ebook! Foto: rawpixel.com – it.freepik.com
La Generazione X: i ragazzi dell’era post ideologica
19 Maggio 2020
Con Generazione X si fa riferimento a coloro che sono nati tra il 1965 e il 1979. Sono le donne e gli uomini che oggi hanno un’età compresa tra i 55 e i 41 anni e che, secondo l’ISTAT, rappresentano il 23,6% della popolazione totale italiana. Ai tempi del crollo del Muro di Berlino (1989), i più grandi avevano circa 24 anni, i più giovani appena 10: ciò fa di loro la prima vera generazione post-ideologica, quella che ha plasmato la propria identità sociale e politica in un mondo non più polarizzato tra Est e Ovest, tra modello americano e blocco filo-sovietico. LEGGI ANCHE: Dagli over 60 ai dirigenti di domani, dai Baby Boomers alla Generazione Z La Generazione X, la generazione dell’ignoto La X con cui si è soliti definire i 55-41 anni odierni indica esattamente ciò che potete immaginare: ‘Ics’ come ‘Ignoto’, come mancanza di redini, di un immaginario, di una sovrastruttura simbolica capace di fornire loro una direzione. La contrapposizione cristallizzata della società precedente alla loro non c’è più, sono venute meno le lotte di classe, non ci sono più sogni collettivi da inseguire, l’individualismo inizia ad affermarsi, non tanto come scelta quanto come effetto collaterale dei cambiamenti globali. Ed è per questo che i ragazzi della Generazione X sono descritti come affetti da apatia, incapaci di emozioni forti, sprovvisti di una propria personale battaglia da condurre. Meno di Zero… Nel primo articolo dedicato a questa rubrica sulle generazioni mi era piaciuta l’idea di introdurre la Generazione X citando un passaggio del romanzo Fight Club di Chuck Palahniuk che esprime mirabilmente quel senso di assenza, ve lo riporto qui: Porca puttana, un’intera generazione che pompa benzina, serve ai tavoli, o schiavi coi colletti bianchi. La pubblicità ci fa inseguire le macchine e i vestiti, fare lavori che odiamo per comprare cazzate che non ci servono. Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra né la grande depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinti che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock star. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando. E ne abbiamo veramente le palle piene! Fight Club – Chuck Palahniuk Ora vorrei avvalermi di un altro straordinario scrittore statunitense, tra i più grandi romanzieri viventi, Bret Easton Ellis. Ellis, nel 1985, pubblicò Meno di Zero; l’opera è un vero e proprio manifesto dei ventenni degli anni ‘80: materialisti, annoiati, abulici, perennemente insoddisfatti. La cronaca scorre in prima persona, attraverso il punto di vista del protagonista, Clay, un ragazzo dell’upper side di Los Angeles. Lo scenario è quello di un’estate californiana tra giovani ricchi, in possesso di tutto ciò che potrebbero desiderare e, proprio per questo, perennemente insoddisfatti. Il libro racconta l’esasperazione silenziosa di una generazione alla disperata ricerca di emozioni e impossibilitata ad esprimere un disagio che non ha forma. “Non voglio che me ne importi. Se tengo alle cose, sarà ancora peggio, sarà soltanto qualcos’altro di cui preoccuparsi. È meno penoso se non te ne importa niente.” Meno di Zero – Bret Easton Ellis LEGGI ANCHE: Lavoro, generazioni a confronto: i Baby Boomers, quelli nati nel boom economico I primi digital adopters La Generazione X è stata la prima della storia a dover realmente affrontare la digitalizzazione dei sistemi mondiali, quello della comunicazione, della finanza, della tecnologia in genere. Negli anni ‘90, avevano un’età di circa 15 -30 anni, molti di loro avevano mosso i primi passi nel mondo del lavoro, molti altri ne erano ancora lontani. Così, a differenza dei Boomers, che hanno affrontato con ritrosia una rivoluzione totale cui non avrebbero potuto far fronte per eccesso di età, i ragazzi della Generazione X ne sono stati travolti senza la possibilità di sfuggirle: hanno così dovuto insegnare al loro cervello analogico a configurarsi sulle onde digitali: sono loro i veri digital adopters. Ci sarebbe molto, molto di più da raccontare sulla Generazione X, ma troverete tutto sul mio ebook, in uscita a breve! Restate aggiornati tramite il mio blog e sui miei profili social! Facebook / LinkedIn/ Instagram PRENOTA LA TUA COPIA GRATUITA DELL’EBOOK SULLE GENERAZIONI I primi 100 indirizzi email, avranno diritto alla copia gratuita dell’ebook!
Lavoro, generazioni a confronto: i Baby Boomers, quelli nati nel boom economico
11 Maggio 2020
Era stato il tempo dell’Unità d’Italia, ma non degli italiani. Poi venne quello della Prima Guerra Mondiale, poi del ventennio fascista e poi, ancora, quello della secondo conflitto bellico. E quindi, era giunta l’ora di una nuova fase storica: l’Italia si riscoprì una nazione e, per la prima volta, una Repubblica. Il fascismo non c’era più, il nazismo neppure. Restavano due, grandi ideologie, a spaccare il mondo per metà. Alla sinistra della Cortina di Ferro, confine ideale e tangibile che separava ciò che era comunista da ciò che non lo era, appena un passo alla sinistra della mappa del mondo, c’eravamo noi italiani. Di un’Italia che in quegli anni, lentamente, inziava a scoprirsi grande, iniziava a scoprire i miti del consumo, dell’autodeterminazione, della scalata sociale. In questo contesto, tra il 1946 e, orientativamente, il 1964, nasceva una generazione destinata a riconfigurare il tessuto cultura e nazionale: sono definiti Baby Boomers, semplicemente Boomers o, più raramente, Boomies. I Baby Boomers: quelli nati nelle ideologie e le rivoluzioni I Baby Boomers sono le donne e gli uomini che oggi hanno tra i circa 55 anni e poco più di settanta. Sono coloro che hanno vissuto, respirato e sostenuto gli anni delle ideologie, della militanza, delle lotte per i diritti, delle rivoluzioni. Parliamo, infatti, di chi ha avuto vent’anni ai tempi della Guerra Fredda, anni in cui si era ‘pro’ o si era ‘contro’, senza sfumature. Decidete voi in relazione a cosa. Dobbiamo però considerare che la società che sto descrivendo ha ben poco a vedere con quella in cui operiamo noi oggi. Economicamente, socialmente, tecnologicamente, comunicativamente. La spina dorsale dell’economia di oggi Intorno ad essi, l’epoca del benessere. Alla spalle, un retaggio contadino o operaio; per i più, un’estrazione sociale comune: quella contadina, operaia, o al più, piccolo borghese. Davanti, l’idea di un mondo migliore, stimolata dal progresso tecnologico, dalle migliori condizioni di vita, economiche e lavorative. In Italia, i nati tra il 1946 e il 1964 rappresentano un quarto della popolazione totale (Dati ISTAT). Sono mediamente benestanti, più benestanti delle generazioni che li seguono, ma nonostante l’ambizione, sono anche persone tendenti al risparmio, una tendenza figlia del ricordo ancora cristallino degli anni dell’infanzia, quelli immediatamente successivi al Secondo Dopoguerra, quelli degli stenti, delle campagne abbandonate, delle città in polvere. Oggi sono nostri nonni e nostri padri e sono coloro che sorreggono spesso le famiglie, gravate da generazioni di trentenni, loro sì, assorbiti da un contesto storico incapace di rispondere adeguatamente alle loro speranze professionali. Questi, in brevissimo, sono i baby Boomers: ma non temete, troverete molte, ma molte più informazioni a riguardo, quando sarà pronto il mio ebook dedicato alle generazioni e al mondo del lavoro. Presto, molto presto! Foto: tutti i diritti riservati PRENOTA LA TUA COPIA GRATUITA DELL’EBOOK SULLE GENERAZIONI I primi 100 indirizzi email, avranno diritto alla copia gratuita dell’ebook!
Progetto #ioscelgome: sensibilizzare per combattere la violenza
11 Maggio 2020
L’associazione #Ioscelgome è nata nel novembre del 2018 da un’idea di tre persone: Serena Fumaria, Rosalba Del Monte e Valter Giraudo. Il progetto è frutto di oltre 3.000 ore di riflessioni, incontri e confronti che hanno portato alla realizzazione di un charity program, il quale si pone un obiettivo preciso e socialmente lodevole: fornire sostegno psicologico, supporto morale e consigli pratici a tutte le vittime di violenza e abuso, in qualunque forma si manifestino. Go! Step Up! sposa e sostiene l’iniziativa Ciò che più mi ha colpito dell’iniziativa e della concezione stessa che motiva l’associazione è una visione che, da sempre, porto avanti anche io, seppur in ambiti e con obiettivi assai dissimili: porre la persona al centro. #Ioscelgome, così come Go! Step Up!, parte da un assunto che dovrebbe essere fondamentale per ognuno di noi nell’approcciare la vita in tutte le forme e i contesti, ovvero che ogni individuo è meravigliosamente unico. In quanto tale – al di là dei metodi, delle modalità operative, degli indirizzi che si sceglie di assumere nel proprio percorso personale o professionale – egli chiede di essere riconosciuto, valorizzato e apprezzato nelle sue specificità, anche e ancor più nelle sue debolezze. E così, su suggerimento di un’amica che mi ha portato a conoscere questo encomiabile progetto, ho deciso di dare il mio supporto, nelle modalità che mi sono più congeniali. Il restyling del nuovo sito web dell’associazione ioscelgome.it è stato realizzato pro bono da me. Il mio intento è dare supporto e forza a un’iniziativa che merita di essere conosciuta e diffusa. Più forti insieme, anche tu C’è un’altra ragione che mi spinge a sentirmi così vicina a questa associazione: l’idea che l’unione fa la forza. Sì, banale, forse, vero? No, non lo è. O forse solo in teoria, perché all’atto pratico, nella vita di tutti i giorni, spesso è maledettamente difficile tenere a mente questa scontata verità. #Ioscelgome lo sa bene e invita ognuno di noi a dare il proprio supporto, che qui si traduce nella capacità di rompere il silenzio, di non restare a guardare, di smettere di pensare che verrà qualcuno pronto a fare ciò che noi siamo troppo vili, distratti o egoisti per fare. Come ci ricorda il video di presentazione realizzato dall’associazione: “Ora anche tu puoi fare qualcosa di concreto Per informare, prevenire la violenza, smuovere le coscienze”. Mostriamo a chi ha bisogno come essere più forti dimostrando la nostra forza. Il simbolo del colibrì: coraggio e forza d’animo Il colibrì è il simbolo scelto dai fondatori per rappresentare l’associazione e il suo scopo. Il colibrì rappresenta l’amore per la vita, la forza d’animo, la capacità di affrontare le difficoltà e l’accortezza. È un uccello che per secoli è stato considerato sacro presso le popolazioni del Centro e Sud America, dai Maya agli Aztechi. Sa volare all’indietro e, grazie alla sua straordinaria rapidità, è in grado di restare fermo a mezz’aria, sfidando le leggi della fisica. Ciò che viene richiesto a noi, invece, è estremamente più semplice, se vogliamo. VISITA IL SITO WWW.IOSCELGOME.IT
Meglio i giovani o i vecchi? Case History
11 Maggio 2020
Riporto una email che mi è arrivata la settimana scorsa “Buongiorno, sono alla ricerca di lavoro allego il mio c.v., la lettera di presentazione e’ gia’ compresa. Sono inoccupatx e risiedo a XXX, ma valuterei di lavorare nelle zone limitrofe e su XXX e XXX. Nel mio piccolo, mi sono occupatx di selezione del personale per diversi anni, non ho riscontrato tanta voglia di lavorare fra i selezionati e poca o inesistente grinta e voglia di raggiungere risultati. Talvolta impossibile da descrivere il comportamento dei giovanissimi, che ho cercato di stimolare formare e soprattutto motivare. Ora sono dall’altra parte, chiedo al selezionatore di soprassedere alla mia eta’ e di farmi almeno un colloquio conoscitivo, se il mio c.v. dovesse risultare in linea. […]” Ricevo tante candidature ed è sempre mia abitudine rispondere a tutte e, per chi mi conosce, sa che aiuto sempre come posso: invito a caricare il profilo sul database di IQM selezione (https://www.iqmselezione.it/invia-cv.php) con cui collaboro e do anche conferma di esatto inserimento; aiuto nella sistemazione magari del cv se vedo qualcosa che non va; addirittura insieme ad altri colleghi HR stiamo continuando anche per il mese di Maggio a fornire consulenze gratuite in Carriera con il progetto SOSTENIAMOCI (https://sosteniamoci.gostepup.it/carriera/); chiunque può infatti richiedere gratis una consulenza in revisione cv, simulazione colloquio, consulenza sul proprio percorso professionale, valutazione del potenziale, bilancio di competenze, counseling filosofico, e ancora tante altre consulenze in altri ambiti e settori; e così via! Ma questa volta, questa email, contiene qualcosa, un giudizio negativo sui giovani che non mi spiego o meglio non voglio accettare come spiegazione. Il mittente non è un giovanissimo e questa affermazione, nel corpo della mail che accompagna il suo cv, oltre a non servire allo scopo (anzi!), mi sembra una forma di propaganda dell’esclusione e della divisione. Quasi a voler dire “prendete me che sono migliore e non come i giovani che non hanno voglia“. Come se per trovare lavoro, occorresse mettere in cattiva luce una generazione che non ci appartiene o che semplicemente (il più delle volte) non conosciamo! Questo atteggiamento completamente negativo, di chiusura, di esclusione, che nega l’importanza, oggi più di ieri, dell’inclusione intergenerazionale, è così brutto da leggere, un modo di pensare che spero con tutta me stessa possa appartenere a pochissimi. E spero che anche il mittente della mia email, possa comprendere che non vince chi si chiude. Oggi vince chi collabora, chi si connette, chi crea rete, chi aiuta, chi dona. Mi ricorda una certa Ministra di qualche anno fa con il suo #choosy. Stomachevole oggi come allora. (indipendentemente dal colore politica fu veramente una uscita infelicissima). A questo punto mi chiedo e vi chiedo: leggo male io quelle parole? Le ho interpretate male? Ne stiamo discutendo su linkedin…clicca qui
Dagli over 60 ai dirigenti di domani, dai Baby Boomers alla Generazione Z
27 Aprile 2020
Perché siamo costantemente portati a sminuire le generazioni che seguono la nostra? Perché percepiamo in maniera così netta il distacco tra ciò che sentiamo di essere e ciò che riconosciamo negli individui più giovani che compongono la società in cui muoviamo? Perché, a prescindere dalla nostra età e dalla nostra data di nascita, qualunque frase che cominici con “Ai miei tempi…”, sappiamo già che introdurrà un commento negativo nei confronti di chi “i tempi” li sta cavalcando nel presente? Sono domande piuttosto banali come scontata può apparire la risposta: ognuno di noi è figlio del proprio tempo e dal contesto storico, politico, economico, sociale e tecnologico in cui è chiamato ad agire assorbe valori, punti di vista, modi di vedere e di interpretare il mondo, simboli, immaginari, ideologie. Ed è inevitabile, dunque, che chi sia nato a ridosso del Secondo Dopoguerra abbia un modo differente di percepire il mondo nei confronti di chi sia nato, invece, nell’epoca del boom economico o nell’era dell’esplosione delle tecnologie digitali o di chi sia non ha mai conosciuto il XX secolo. Ciò che dovrebbe essere meno normale, semmai, è la spontanea e automatica modalità del pensare propria di chi si ponga in uno stato di presunta e mai desunta superiorità nei riguardi di chi nasca in un periodo storico successivo al proprio. Perché è sempre così: “Eeeeh, le generazioni di oggi…”. “Eeeeh i giovani di adesso…”. “Eeeeh, quando ero ragazzo io invece…”. Ogni generazione ha la sua storia, i suoi valori, i suoi simboli Mettiamocelo in testa, una volta per tutte: non ci sono generazioni migliori di altre. Il mondo cambia e sempre cambierà. E ogni mutamento non farà altro che generare cittadini differenti, nel modo di ragionare, di vivere la realtà, persino nella conformazione del proprio cervello. Ciò non rende nessuno migliore di nessun altro e se le generazioni dei nostri nonni dimostravano, ad esempio, una maggiore capacità mnemonica rispetto a noi Millennials, a nostra volta noi siamo maggiormente abili nel multitasking. E così i ragazzini di 15 anni di oggi sono cento volte più abili di noi nel capire come funziona una nuova tecnologia digitale mentre noi stiamo ancora cercando di comprendere a cosa serva. Questo è il primo di una serie di articoli che voglio dedicare al tema generazionale e questa vale solo come un’introduzione a un lavoro molto più ampio e articolato, volto a delineare il profilo tipo, i tratti caratterizzanti e le peculiarità delle quattro generazioni con cui abbiamo a che fare oggi, ma con un chiaro indirizzo: nessun giudizio nel merito, nessuna esaltazione delle classi di ferro né attacchi ai giovanissimi. Sarà un lavoro più oggettivo e lucido possibile, orientato a scandire una verità precisa: nessuno è migliore di nessuno, ma ogni generazione è certamente differente dall’altra. Le quattro generazioni che indagherò saranno: I Baby Boomers: Nati tra il 1946 e il 1964 La Generazione X: Nati tra il 1965 e il 1979 i Millennials: Nati tra il 1980 e il 1999 La Generazione Z: Nati tra il 2000 e il 2010 I Baby Boomers “Si cresce solo portando qualcosa a termine e cominciando qualche altra cosa. Anche se tali cosiddetti inizi e fini sono solo illusioni”. Il mondo secondo Garp – John Irving I Baby Boomers sono i ‘figli’ del boom economico che segue la ricostruzione del Secondo Dopoguerra, nell’Italia che si rialza dal Ventennio Fascista e dalla sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale che ha causato il crollo dei regimi totalitari in italia e in Germania. Convenzionalmente, comprende i nati tra il 1946 e il 1964 e che hanno vissuto appieno le lotte per i diritti civili, le rivoluzioni culturali. Soprattutto, sono coloro che hanno vissuto le trasformazioni mondiali conseguenti all’esplosione demografica e l’apertura alla prima vera e propria società dei consumi. Generazione X “Porca puttana, un’intera generazione che pompa benzina, serve ai tavoli, o schiavi coi colletti bianchi. La pubblicità ci fa inseguire le macchine e i vestiti, fare lavori che odiamo per comprare cazzate che non ci servono. Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra né la grande depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinti che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock star. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando. E ne abbiamo veramente le palle piene!. Fight Club – Chuck Palahniuk I nati tra il 1965 e il 1979 sono quelli della Generazione X. La X serve a definire uno spaccato generazionale privo di riferimenti culturali e ideologici forti: sono coloro che hanno assistito al tramonto delle ideologie, alla fine della Guerra Fredda e al crollo del Muro di Berlino, senza che impalcature socio-culturali ugualmente solide ne abbiano saputo prendere il posto. Il contesto sociale, storico e politico in cui crebbero i giovani della generazione X valse loro la stereotipata nome di persone spesso pervase da apatia e mosse da un cinismo di reazione alla privazione di un’identità e di uno scopo. Millennials “È che proprio i trentenni non esistono più, come gli gnomi, il dodo e gli esquimesi. Adesso c’è l’adolescenza, la postadolescenza e la fossa comune. I trentenni sono una categoria superata, a cui ci si attacca per nostalgia, come il posto fisso.”. Perché non possiamo dirci trentenni – Zerocalcare I Millennials – o Generazione Y – di cui anche io faccio parte, è quella che comprende coloro che sono nati tra il 1980 e il 1999. Il principale tratto distintivo della Net generation è certamente la rivoluzione comunicativa e digitale che, per primi, i nati in questa fase storica si sono trovati ad affrontare; sono i primi nati a cavallo tra il mondo analogico e quello digitale e con le adeguate risorse per metabolizzare la transizione. Lo scarto conoscitivo tra Millennials e Generazione X, in ambito tecnologico, è notevole e segna un vero e proprio solco, cui si affianca un nuovo boom demografico e
Il nostro mondo è cambiato: la smettiamo di lamentarci? #StopWhining
20 Aprile 2020
Tutto ciò che sta accadendo in Italia e nel mondo ha sconvolto le nostre certezze. Possiamo accettarlo come fatto o continuare a lamentarcene. Tu cosa scegli? “Il Governo ha sbagliato, avrebbe dovuto chiudere tutto molto, molto prima!”. “Ma il Governo cosa fa? Cosa aspetta a riaprire tutto? Guardate la Germania! Guardate l’Olanda!”. “E il Mes?”. “E gli eurobond?”. Improvvisamente, una nazione che – statisticamente – conta un numero preoccupantemente elevato di analfabeti funzionali, si scopre altresì un Paese abbondantemente fornito di fini virologici, politologi, economisti. Tutti accomunati da una caratteristica, da un atteggiamento, un’inclinazione: il talento smodato per la lamentela. Il lancio della lagna è diventato il nuovo sport nazionale, colmando brillantemente quel vuoto cosmico lasciatoci in dote dalla cessazione delle attività calcistiche. E sì, perché a dire la nostra siamo bravi tutti. Ma proprio tutti tutti. Un po’ meno abili, però, siamo nel dimostrarci pratici e capaci di rispondere con prontezza alla necessità di cambiamento. Perché di questo si tratta: piaccia o non piaccia, è cambiato tutto. Ora le scelte a nostra disposizione sono due: reagire in modo attivo e cosciente oppure continuare a sputare piagnistei , e sì che visto il rinvio delle Olimpiadi estive avremo un anno di tempo per affinare la tecnica e puntare all’oro di Tokyo 2021: il lancio della lagna sarà la disciplina più competitiva della storia dei Cinque Cerchi. LEGGI ANCHE: E-commerce Veloce e Gratis Adesso: Whatsapp Business Reagire o cercare scuse: non c’è una terza via Non voglio certo sminuire la gravità della situazione: l’economia ha subito un bruschissimo rallentamento e serviranno anni per assorbire le perdite imposte dal lock down necessario ad arginare la pandemia da Coronavirus. Tantissime famiglie soffriranno le pene dell’inferno e senza un ausilio concreto da parte delle istituzioni, sarà ancora più complicato rialzare la testa. D’altra parte, però, la situazione è questa e a noi non resta che prenderne atto. Anzi, no, non resta che cogliere il buono che questo dramma globale (globale, non nazionale, badiamo bene), può lasciare in dote. L’Italia è sempre stata una nazione arretrata sotto molti punti di vista. Sotto l’aspetto aziendale, abbiamo avuto bisogno di una serrata nazionale per scoprire che il remote working non è fantascienza, ma una risorsa preziosa per qualunque sistema produttivo. C’è voluta la quarantena per convinerci a digitalizzare i nostri sistemi di gestione. Siamo così, siamo un popolo incapace di cogliere le novità, timoroso, conservatore, ma prontissimo a rimproverare ai nostri governanti le stesse mancanze che noi stessi, nel nostro piccolo, incarniamo pedissequamente. Perché è più comodo, perché è molto più facile scaricare l’idea del fallimento su entità a noi superiori , piuttosto che provare a scrutarle nel riflesso dello specchio. E io credo sia semplicemente giunto il momento di smetterla e di reagire. Reinventarsi, cambiare, migliorare: così è, se vi pare Quello che sto cercando di dire è in realtà molto semplice: la situazione è quella che possiamo scrutare davanti a noi. Additare governi, istituzioni e amanti del footing come i veri responsabili dei nostri fallimenti ci servirà solo a rendere meno fragoroso il tonfo del nostro fallimento, che sempre fallimento rimarrà. In alternativa, possiamo essere talmente assennati da comprendere che, mai come oggi, ciò di cui abbiamo bisogno è un cambio di passo. E in questo mi rivolgo in particolar modo a due categorie di persone: i proprietari di azienda e i job seeker. Philip Kotler, uno dei più grandi esperti di marketing vivente, disse che “l’unico vantaggio competitivo sostenibile consiste nella capacità di apprendere e di cambiare più rapidamente degli altri”. E ha ragione. Stiamo ripartendo da zero e in un mondo nuovo . Sono già cambiate le esigenze, sono mutate le skills di cui le aziende hanno bisogno e tutti voi che cercate un nuovo lavoro, tutti voi che non siete soddisfatti della vostra vita professionale, oggi avete davanti una straordinaria occasione: chi per primo sarà in grado di intercettare i cambiamenti e di rispondere ad essi avrà grandi possibilità di uscirne vincitore, chi continuerà a guardarsi alle spalle, resterà indietro. Prendiamo ad esempio l’esperta digitale Marta Basso, fondatrice del movimento #StopWhining – letteralmente, “basta frignare”. Una donna che si è tirata su le maniche e ha inseguito i propri sogni oltre i confini nazionali, abbandonando casa e famiglia. Ha affrontato le mille difficoltà tipiche di chi preferisce il percorso giusto a quello facile e alla fine ha vinto. Il suo principio guida è sempre stato: non lamentarsi, non guardare al passato, non recriminare su ciò che sarebbe potuto essere. Approcciarsi alla vita in questo modo aiuta a sviluppare un mindset positivo, e con un mindset positivo, tutto diventa possibile: i limiti che abbiamo sono quelli che noi stessi ci imponiamo! LEGGI ANCHE: Fronteggiare il Coronavirus: come affrontare un colloquio di lavoro Skype “Resilienza” non è una parola vuota Resilienza è una delle parole più abusate di queste settimane. Già, abusate. E non perché viene utilizzata con eccessiva ricorsività, ma perché viene adoperata a sproposito. In psicologia, la resilienza è la capacità che ha un individuo di reagire a un evento traumatico. Ebbene, i flash mob dai balconi non sono esattamente il mezzo vincente per reagire. Aiutano, certo, diffondono positività. Ma non è cantando “L’italiano dal quarto piano del nostro appartamento che salveremo l’Italia e noi stessi. #Andràtuttobene se noi faremo in modo che vada tutto bene, fin da adesso. Sfruttiamo il tempo a nostra disposizione per investire sulla nostra formazione, approfittiamo delle centinaia di corsi di formazione gratuiti offerti in questi giorni dalla rete, assorbiamo l’idea che abbiamo bisogno di un cambio di passo. E facciamolo subito, badando a noi stessi, a ciò di cui abbiamo bisogno. Smettiamola di lamentarci, smettiamola di guardare in casa degli altri per criticare le iniziative altrui, smettiamola di fare squadra con chi sa solo riempire la propria coscienza di veleno, questo vi servirà soltanto a soffrire un po’ meno di solitudine. Come diceva il grande Fabrizio De Andrè: “Questo ricordo non vi consoli, quando si muore si muore soli”. Oppure potete vivere, vivere persino meglio di prima,
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