chisei-

Ehi! Tu che cerchi lavoro, ti sei mai guardato dall’esterno? E cosa vedi?

Quali sono i pensieri che vi guidano mentre compilate il vostro curriculum vitae?

Quali sono gli elementi su cui fate leva durante un colloquio di lavoro?

Mentre rispondete a una mail professionale, vi chiedete mai a cosa pensano coloro che la riceveranno?

Queste domande sono molto meno banali di ciò che possa sembrare e mi servono per introdurre l’argomento di questo articolo: la mancanza di empatia dei job seeker (chi cerca lavoro) nei confronti di chi li esamina, li valuta e (ci si augura) li sceglie.

Esatto: spesso, molto spesso, coloro che si propongono per una posizione aperta perdono di vista il focus, dimenticano che dall’altra parte ci sono delle persone prima che dei professionisti, persone che si fanno una loro idea sul candidato processando informazioni e segnali che, spesso, neppure ci accorgiamo di trasmettere.

 


LEGGI ANCHE: Alzarsi dal letto… di Procuste: le relazioni tossiche sul lavoro


Come per le aziende, così per i professionisti…

Anche stavolta, lo spunto mi è stato fornito da un ottimo articolo di Riccardo Scandellari che, per attitudini e interessi divergenti dai miei, si è concentrato sul punto di vista delle aziende, denunciando come queste, non di rado, si facciano condizionare dal desiderio di proiettare un’immagine vincente di sé, facendo leva magari sulla forza di numeri e statistiche, ma di fatto dimenticandosi quello che c’è dall’altra parte. O meglio, CHI c’è dall’altra parte. Così mi sono detta: “Beh, il discorso si applica alla perfezione anche a chi cerca lavoro, seppure con dinamiche e comportamenti differenti”. E allora, eccomi qui a fornire il mio contributo sulla questione, ma rivolgendomi a coloro che cercano lavoro.

Porsi dall’altra parte, guardarsi dall’esterno

La questione, dicevo, è la stessa: che si parli di aziende o di job seeker, è evidente come chi comunica se stesso, spesso, dimostra scarsa considerazione per chi ascolta, per le sue esigenze e le sue aspettative. A cambiare, che si parli di brand o di professionisti, sono semmai i mezzi impiegati. E se un’impresa si racconta attraverso i propri canali istituzionali, il cercatore di lavoro lo fa mediante il cv, i propri profili social e, ancor più, in sede di colloquio.

Cosa vuoi dire? Che reazione vuoi suscitare?

Dunque, gli errori in cui incappano le aziende sono i medesimi commessi dai professionisti. Uno su tutti riguarda l’attenzione, spesso morbosa, nei confronti della quantità a discapito della qualità. Qualche esempio può aiutare la comprensione: le aziende sovente sono fin troppo concentrate sull’obiettivo di pompare i propri numeri: quelli relativi ai follower e alle reazioni sui social, alle visite sul sito, alla quantità di canali in cui appare il proprio nome. Traslando questo discorso sui professionisti, scopriamo come essi si preoccupino spesso di fare bella impressione mostrando la quantità enorme di esperienze che hanno totalizzato, la mole di progetti che hanno gestito, l’enormità di skills che dichiarano di possedere e di tools che sono in grado di utilizzare. Il tutto, perdendo di vista ciò che dovrebbe essere, viceversa, il loro vero obiettivo: suscitare un’impressione positiva, d’impatto, efficace. In poche parole: trasmettere fiducia.

 

Cambiamo approccio?

Qual è l’approccio alternativo a quello descritto finora? Intanto, ciò che occorre è un vero e proprio cambio di paradigma: smetterla di pensare che la quantità faccia la qualità e iniziare a preoccuparsi di come le nostre informazioni vengono processate da chi ci sta di fronte (fisicamente o telematicamente). Provate a porvi questa banalissima (?) domanda: come reagirei io se ricevessi un curriculum come il mio? Magari avete strutturato il vostro cv in modo da renderlo densissimo di informazioni. Ma come vengono processate queste informazioni da chi non ci conosce e sta imparando a farlo attraverso il cv? Potrebbe essere che, con il nuovo approccio che provo a suggerirvi, vi rendiate conto che il vostro curriculum difetta in fruibilità, linearità, che sia troppo ricco di informazioni, molte delle quali superflue e che, chissà, potrebbero distogliere da quelle che invece sono utili all’esaminatore. Potrebbe essere che un profilo così pieno di zeppo di informazioni non sia in grado di fare emergere le vostre reali attitudini.

Conosci te stesso… e racconta chi sei

Ciò che occorre è, dunque, un processo di autoanalisi.
Domandatevi: quali sono i miei reali punti di forza? Perché un’azienda dovrebbe scegliere me e non i miei concorrenti? E i miei punti di forza sono posti in evidenza? Li ho raccontati nel modo più opportuno? Perché, è bene che lo sappiate, a un manager d’azienda interessa poco se sapete utilizzare mille dispositivi, se siete in grado di eseguire decine di operazioni, a lui interessa che le vostre competenze specifiche siano sviluppate adeguatamente agli standard aziendali e che le vostre attitudini caratteriali, emotive, professionali siano in grado di armonizzarsi con il contesto aziendale. Queste sono informazioni che avete saputo trasmettere?


LEGGI ANCHE: Nuovo Curriculum Vitae Europass 2020: il mio primo libro sulle Risorse Umane e il Recruiting


Chi sei è più importante di cosa sai

Volendo esprimere in modo semplice e sintetico il concetto fondamentale di questo articolo, possiamo dire che chi sei conta di più di ciò che sai. Non è tanto la quantità di esperienze e di competenze a fare ciò siamo, ma le nostre predisposizioni e i nostri talenti specifici. E dall’altra parte, che sia attraverso il cv o in sede di colloquio, è questo che gli esaminatori (quale io stessa sono) vogliono conoscere. Sta al candidato, però, predisporre un sistema di comunicazione davvero efficace, che sappia prescindere dalle statistiche e porre la nostra identità al centro della narrazione.

 

 

Foto created by gpointstudio – www.freepik.com

I commenti sono chiusi.